Scarsa lingua di terra che orla il mare<br/> Il mondo di Camillo Sbarbaro

Scarsa lingua di terra che orla il mare
Il mondo di Camillo Sbarbaro

12,00

Scarsa lingua di terra che orla il mare
Il mondo di Camillo Sbarbaro

Formato 23x15,5
Pagine 80 (colore)
ISBN 978-88-3124-468-8

A Santa Margherita Ligure Camillo Sbarbaro ha vissuto ben poco: dal 12 gennaio 1888, giorno della sua nascita, all’inizio del 1894, quando, rimasto orfano di madre nel precedente ottobre, si trasferisce con il padre e la sorellina, nel paese collinare di Voze, vicino a Spotorno. Ma è noto che le esperienze vissute nell’età infantile spesso segnano per tutta la vita e così è stato per Sbarbaro che, con il padre e la sorellina, sin da piccolo era stato abituato a camminare su per le prime pendici del monte di Portofino per conoscere il mondo della natura; gli odori e i colori, ma non solo dei fiori e delle piante più belle, ma anche degli insetti, delle erbette e dei muschi, attività che poi svilupperà nelle pause della sua vita militare: “Mi son dato a corpo perso alla botanica: scruto ogni indizio di verde che la neve lascia allo scoperto” scriverà il 9 gennaio 1919 all’amico Angelo Barile. Era dunque nata in lui bambino, in compagnia del padre e della sorella compagna delle sue escursioni (si veda la poesia La bambina che va sotto gli alberi) una stretta simbiosi con il mondo naturale che resterà per sempre nella sua vita e nelle sue pagine, come anche appare da alcuni suoi ricordi giovanili come questo inserito nel 1958 nei Fuochi fatui: Ogni volta che passo davanti al rosso caseggiato dove nacqui, vedo, al di là del cancelletto che dà sul cortile, due bambini: seduti sui calcagni, piluccano di tra la ghiaia certa erbolina che ha in bocca un sapore agretto (non cercai mai di conoscerne il nome: la profanerebbe). Ecco allora perché le sue poesie e prose liriche abbondano di spazi consolatori e quasi felici nelle descrizioni di paesaggi e del mondo della natura, così come al contrario quando la vita lo porta a vivere nella grande città in pieno sviluppo prima della Grande Guerra e dunque con spazi verdi sempre più ridotti, la sua malinconia, che talora sfocia in rabbia, non avrà confini al punto che nei versi di Pianissimo Genova non sarà neppure nominata e descritta solo come luogo di alienazione e di perdizione. E quando più tardi si abituerà infine alla vita nel capoluogo ligure, sarà per lui un piacere camminare al di fuori del centro e su per sentieri, percorrendo – come scriverà nelle Vedute di Genova – “quella che al giro del Follo s’inerpica di là del Bisagno – e la montagna sembra porgerle in fianco – ed è la mulattiera che conduce a Sant’Eusebio”. Riappacificatosi dunque con la Genova della periferia collinare e pur cominciando a cogliere anche nella metropoli spunti a lui congeniali, qui Sbarbaro vivrà di fatto tra il 1912 e il 1951 con le parentesi delle due guerre: nella prima richiamato alle armi e nella seconda sfollato prima a Spotorno e poi sulle sue frazioni collinari per sfuggire ai bombardamenti e poi alle violenze nazifasciste; e sarà proprio questa l’occasione per riavvicinarsi a quella natura vitale, fatta di foglie e di insetti oltre che di colori e profumi che era entrata in lui nei giorni dell’infanzia vissuti a Santa Margherita Ligure. E di questo mondo si nutre gran parte della sua produzione letteraria, offrendo così ai lettori occasione per conoscere da vicino, attraverso le sue parole, angoli di Liguria altrimenti ignoti; e se i lettori hanno anche la passione della fotografia ecco che gli scritti di Sbarbaro sono occasione unica per realizzare scatti di forte emozione come quelli esposti in questa mostra. E allora in una sequenza di immagini sempre più coinvolgenti, ecco apparire dai Trucioli e poi dai Fuochi fatui “alberi che sono delicate trine sciori- nate” e “il corbezzolo, mentovato da Lucrezio, che reca in una i mazzetti di bianchi fiori e lo scarlatto dei frutti”, e in autunno, i “grappoli che si scoprono, spogliando la vite, pregni di dolcezza”, mentre in marzo, allo sbocciare della primavera, “sul muro di cinta il tralcio del glicine s’incipria di azzurro” e più in su “gli uliveti salgono i colli, simili a greggi da tondere”; e se gli ulivi con le loro foglie che li adornano danno il senso della vitalità, “l’albero ignudo a mezzo inverno che s’attrista nella deserta corte” sollecita nel poeta un timore esistenziale: “io non credo di mettere più foglie e dubito d’averle messe mai” come leggiamo in una delle sue prime poesie inserite nella raccolta Pianissimo. E naturalmente non possono mancare gli amati licheni: “finché approdai ai Licheni… la dorata parmelia che il muro incrosta”. Della natura fanno parte anche i borghi che in essa si immergono e allora ecco spuntare un campanile che “in vista del cimitero, è un pastore che si trae dietro un gregge di croci e di cippi”, mentre nel paese marino il salmastro “morde le torri rosse di vedetta, lustra l’acciottolato dei portici tozzi e bui”. Già, il mare. A Santa Margherita Ligure il bambino Camillo non ha familiarizzato solo con le piante e gli insetti perché poco più in basso dalla casa della sua famiglia si raggiunge il mare e allora ecco che sulla spiaggia della sempre più attraente cittadina egli ha sentito il rumore delle onde e l’odore dell’acqua salata. E questa esperienza di vita marinara sarà poi ripetuta quando la famiglia, nell’autunno del 1894, si trasferirà a Varazze, altra cittadina di mare, per viverci fino al 1904; e al mare tornerà definitivamente per gli ultimi quindici anni della sua vita quando andrà a stabilirsi con la sorella a Spotorno. Ed ecco allora il mare entrare nelle sue poesie, diversamente e meno che nel primo Montale di Ossi di seppia dove rappresentava per il poeta la sola contrapposizione salutare alla freddezza della città. Per Sbarbaro c’era soprattutto la già ricordata simbiosi con il mondo naturale, sicché il mare da lui era visto come uno degli elementi, ma non l’unico e neppure il più appassionante, del mondo della natura anche se ad esso volentieri si abbandonava. E così “ti siedi e taci sulla spiaggia sterposa di contro a un pallido mare”, “un mare brulicante d’oro dove le vele sono fiamme esili” finché giunge l’ora del tramonto: “Quand’ecco, nell’appropriato scenario, il sole balza, bolla infuocata, sciorinandosi ai piedi un tremolante tappeto arancione”. E c’è il mare quieto come una “fredda lavagna infinita, percorsa da brividi di vento” e quello la cui “collera sugli scogli è il solo canto che s’accorda a te”, il mare che incornicia “il promontorio in faccia all’isolotto di Bergeggi” e quello a picco sotto “l’innocenza dell’albero! Il sole, l’acqua lo toccano in ogni foglia” in un dolce incrocio tra mare e vegetazione”. Ecco questo meraviglioso mondo naturale, ricco di ingredienti delle più varie specie, che troviamo soprattutto nelle pagine di prosa lirica di Sbarbaro, ora rivive nelle 33 fotografie, esito di artistica sensibilità e di avanzata tecnica, che sono qui esposte.

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